A scuola di piacere

Esiste un piacere sessuale che si trova nell’amore.

È supremo. Non si impara in nessun dove.
Poi esiste un piacere tecnico.
Qualcosa che bisogna saper fare.
Esiste un piacere che una volta almeno bisogna provare.
Il piacere di una fellatio fatta coi muscoli sul fondo della gola e tanta densa saliva, il piacere di una sega a 2 mani, presa salda ma tocco vellutato, con le dita di un chirurgo e 7 differenti velocità come un kitchenaid della Kenwood.
Dilatazioni anali fatte con la dovizia di un taumaturgo che senza tagliare ti sa sistemare un’ernia (massaggi circolari, muscolo che s’apre come la bocca di una pianta carnivora quando sente il pelo delle zampe della mosca e tutto rientra) o esplorazioni del punto G che nel mentre il tempo si ferma, il fiato s’accorcia e il pensiero non basta: un verme scava nel cervello come un ascesso di follia per un piacere senza senso, un oceano immenso.
Esiste un piacere che ti trasforma, che nel tuo corpo non sei più tu; non ti riconosci in quel torcimento di nervi, quando i reni si allascano e il suono non arriva più alle orecchie. Non sei più tu. Non riesci nemmeno a venire perché non sei tu.
C’è un piacere tecnico che va conosciuto, praticato, esercitato, come un atleta di tennis che studia la carta, il corpo e il campo, che allena il braccio, lo spirito e la testa.
C’è un piacere che non abbiamo mai provato (non ancora), un piacere tecnico disdegnato dai più che si accontentano dell’amore solo perché non sanno che Dio esiste ed è altrove.
Ci votiamo a una divinità minore perché il vero Dio richiede troppa preghiera e devozione, anima, corpo e applicazione. Richiede un sacrificio sentimentale e un coraggio senza limiti: l’amplesso è una guerra e il corpo un campo di battaglia. Combattere o disertare. O l’eternità o la morte.

Esiste un piacere tecnico.
Imparate tutta la pratica e la teoria. Studiate. Impegnatevi. Godete nel “fare” e nel “dare” soprattutto.
E solo allora, innamoratevi.
Amate come un sacerdote e una sacerdotessa.
Amate la meccanica dei corpi. Fatelo col cuore ma non scordate mai le costole. Il lobo dell’orecchio. Una presa salda intorno al collo e il retro del ginocchio.



(Credits: “Le donne di Anfissa”, 1887 – Lawrence Alma Tadema)

Male

Non posso fare a meno di pensare a quelle cose lì.
Quando mi colpisce con la cinghia dei pantaloni, o con la frusta di cuoio, quando la carne della schiena mi brucia e le natiche iniziano a diventare viola, con quelle piccole macchioline sottopelle (così belle), non riesco a non pensare che a volte la gente viene torturata.
Non riesco a non pensare alla legge. Alla legge islamica che ti condanna a trenta frustate.
Cerchi di divertirti, e invece pensi a una condanna a trenta frustate.

E sai che quelle sono “solo” trenta perché sono capaci di farti morire: te le danno così forte che la pelle si apre. La carne lucida appare. Sgorga il sangue.
Con trenta frustate di un boia si può morire.
Allora penso che sono fortunata, che di frustate me ne piglio più di cento, ma sono date piano (anche se “piano” ti infiamma il nervo sciatico o provoca indurimenti del tessuto sottocutaneo) e allora mi sento in colpa.
Mi sento in colpa a farmi venire in mente certe cose.
Mi faccio venire in mente certe cose in cui la gente muore mentre io non morirò affatto, e, anzi, stiamo solo giocando.
Ma mi tappo le orecchie e mi metto le mani intorno alla testa mentre una paletta di cuoio mi batte. Chiudo gli occhi e me ne vado via da questo letto con la trapunta di fiori in una camera spoglia, di un posto un po’ rétro. Me ne vado in mezzo alla sabbia dei deserti umani. Me ne vado sotto una forca. Me ne vado. E sto ai piedi di un uomo arso: il suo cadavere nero, carbonizzato, come quello che ho visto mio malgrado una volta in TV.

Arrivano i colpi e a volte smetto di sentirli. Come mi tappo le orecchie, anche il dolore, assieme al suono, si fa ovattato: capisco. Capisco perché i bambini si tappino le orecchie e chiudano gli occhi se qualcosa non va. Capisco. Capisco che le cose brutte prima di arrivare al cervello e al cuore passano per i sensi.
E allora le orecchie, il naso, la bocca, gli occhi, vanno preservati. E così anche il dolore del corpo si smorza.
Si smorza quando lo copro col mio respiro. Come quello di un ruminante faccio sì che l’aria entri ed esca rumorosamente dentro me attraverso le narici ghiacciate e infuocate allo stesso tempo con un ritmo sempre uguale. A volte quel suono diventa foresta, altre sirena di un’autoambulanza. A volte lo stridore di una lepre ammazzata a bastonate in campagna.

E allora mi sento forte. Quando il dolore mi fa sussultare e i colpi successivi si fanno più sordi, mi dimentico di chi mi batte a mani nude o con strumenti singolari e me ne vado; fluttuo lontano col suono automatico del mio respiro, che sembra il pianto di un neonato idiota, che sembra il vento di tempesta, che sembra cose ridicole e mi rilasso. Non ci sono più. Non sono più su quel letto, sotto i colpi di quella mano.
Non ci sono più.
Non sono più l’uomo sulla forca.
Non sono la donna lapidata.
Non sono la bestia torturata.
A nessuno.
Questo non sta succedendo a nessuno.

Abbina.
Abbina sensazioni piacevoli a questo delirio.
Pensa all’aria tiepida.
Abbina.
Il dolore è una carezza e il bacio dato sul colpo partito troppo forte si confonde con il resto, mi fa trasalire, come una nuova scudisciata e le labbra sulla carne bruciano da impazzire.
Abbina.
Abbina i baci e le carezze al seguito di una punizione.
Confondi.
Confondi il piacere e il dolore che tanto già lo sai, il danno e fatto, un innesto è stato allacciato chissà quanto indietro nel tempo e non sai distinguere più la mano che ti fa una carezza da quella che ti percuote.
Mischia.
Mischia questo fuoco della carne con i piaceri del sesso: non fare più distinzione tra il culo che ti brucia per il cazzo che ti fotte o la mazza che ti batte.
Godi.
Cerca di venire con la corda che ti taglia. Ti taglia il clitoride, ruvida e stretta intorno alle anche mentre come un anaconda stringe sempre più il corpo tutto.
Vibra.
Come la canna nell’aria.
Unisci.
Ciò che è stato separato.
Lo sai che non puoi più venire senza farti del male.
Pensa.
Ventimila immagini di morte e tortura attraversano il campo visivo. E ti senti in colpa.

Dai! Di più! Dammene di più. Aumenta. Più forte.

Provare la milionesima parte di un dolore reale in maniera ordinata.
Espiare.
Una colpa non tua. Un peccato originale. Come stare al mondo da fortunati in un mondo di dannati.
Male, ancora più male. Fa male. Così male.

Vengo.

Igiene dentale

Mentre il dentista mi faceva deliberatamente male in bocca, avevo le mani intrecciate. Strette. In mezzo alle cosce. Serrate.
Pensavo ossessivamente a una canzone dei Coma_Cose (così, per una competizione di malesseri) pur di non sentire il dolore e non dargli soddisfazione. Forse solo dalle sopracciglia intuiva il mio fastidio, mentre mi schizzava l’acqua in faccia, sugli occhi, e nemmeno mi asciugava, mentre mi faceva riempire la bocca di bava e mi scolava lungo il collo, e non me l’aspirava.
Girati verso di me”. E una goccia di acqua, tartaro e saliva mi scendeva dall’occhio, simile a una lacrima. Ho sperato non la fraintendesse per pianto.
Dottò, io non piango.
Col tubicino tortile cercava la piega giusta per realizzare l’uncino adeguato, e me lo conficcava sotto la lingua e il frenulo sembrava bucato da uno spino.
Ho alzato una mano, in silenzio. L’ho spostato al lato della gengiva, dov’era più adeguato alla sua funzione. Lo ha riposizionato altre quattrocento volte. Tutte sbagliando.

Mi allargava con lo specchietto freddo e le mani calde. Il caldo umano separato dal lattice dei guanti, odore di professionalità, quel caldo umano che non tocca il caldo umano della tua bocca. Un caldo come il tuo, separato dall’azzurro, la sua mano non si bagna del mio interno, ma lo sente, lo sento. La mano in bocca. Le dita. Toccami.
Aprimi.

Non sono masochista.
Me lo sono chiesto spesso. No, non sono masochista. Non mi piace il dolore.

Mi scava tra un dente e l’altro, temo che me ne romperà uno. Non è giustificata tutta questa foga, e io sento grattare, tirare, estirpare come da un muro con uno scalpellino pezzi di roccia.
Ho temuto che mi volesse deturpare.
Gli avevo detto di avere dei denti molto sani, ecco perché erano tre anni che non andavo da un dentista. E lui voleva forse dimostrarmi che non era invece così? Voleva dimostrarmi che dei miei propri denti ne sapeva più di me? Voleva prendermi la bocca a martellate affinché avessi per sempre bisogno di cure costose e mi passasse perciò la voglia di snobbare la categoria?
Ma quando gli ultrasuoni entrano in risonanza con la parte sensibile, quel millimetro sotto il colletto dentale, quando si avvicinano troppo all’osso e un suono orribile inizia a trapanare il cervello, ecco che non posso trattenere un gemito.
Stringo più forte le mani, me ne accorgo solo dopo, ce le ho proprio infilate lì, i polsi contro l’osso pubico.
Piego le ginocchia come per portarle più vicine al petto. Vorrei raccogliermi in questo dolore acuto che mi avviene in bocca. In alto a destra, un fulmine ghiacciato ai lati dei molari.
Ma mi viene in mente l’insegnamento di mia madre: fin da piccola mi ha detto che il dolore fa bene. Più fa male, più fa bene. Devi provare quasi piacere quando la pomata brucia, il calore insiste, l’ago entra, il massaggio duole. Ecco. Sta tirando via tutto il male. Questo è solo il passaggio, il Purgatorio, la redenzione necessaria. Eleva il tuo spirito, stai profondamente in questo dolore fisico e fattelo piacere. Resisti se non sai amarlo, ma resisti. Imparerai.
Imparerai ben presto, e il dolore diventerà l’unica tua ragione.
Ben presto un ago gratis, che buchi qualche lembo di carne inutile, un ago gratis, cannula infilata nel braccio con la scusa della generosità.
Ben presto resisterai ai tuoi dolori cronici senza prendere mai un antinfiammatorio perché puoi, tu puoi, e il martirio innalza.
Perché i mali sono una prova e tu devi mostrare chi è il più forte.
L’insegnamento di mio padre: stringi i denti e vai avanti. Non piangere per nessuna ragione al mondo.
Imparerai ben presto.
Ben presto le lacrime saranno solo un vezzo. Non darai soddisfazione al dottore aguzzino. Non darai soddisfazione al superdotato che ti vuole stupire, non darai soddisfazione al presuntuoso che ti vuole violentare.
Tutto bene?” chiede il dentista. Sorrido – per quanto possibile – in una mossa grottesca coi denti rigati di sangue e gli attrezzi poggiati in bocca. Annuisco sbattendo le ciglia.
Ma tu continua a lavorare, prego! E io a cantare i Coma_Cose, non può essere che si tratti di un dolore irresistibile.
Irresistibile è quel bruciore di quando qualcosa va storto, stava per entrare e poi non entra più. Irresistibile è quel bruciore che ti paralizza e stringi le natiche, allunghi le cosce e nulla più si può avvicinare. Non ce la fai neanche a parlare, prendi fiato, implori di aspettare e quelli aspettano ma minimizzano “Dai, non farla tanto lunga che non è niente! Aprilo, vieni qua.”.
Non sarà quel dolore irresistibile, né come se ti stessero tagliando in due. In fondo non sta che pulendo un pezzo d’osso, la gengiva è solo un dettaglio, è anche nel suo interesse fare qualcosa che ti renda felice e non infelice.
Fidati.
Tu non vedi quello che sta accadendo nella tua bocca, ma fidati! Fidati che è la stessa cosa di quando non vedi la cinghia che ti colpisce la schiena, fidati! Perché tanto ti puoi solo fidare, ti puoi solo fidare e non ti faranno (troppo) male.
Aprimi, spalancami, batti, colpisci, graffia, togli e metti cose, io non lo voglio neanche sapere, solo, sopporterò e canterò i Coma_Cose. “E se magari l’autunno è…soltanto un ideale da difendere come i tuoi 501 rotti sui ginocchi, ricorda queste notti, siamo come lentiggini impermeabili alla pioggia. Ed alle lacrime“. Stringerò i pugni e le cosce, qualcosa là sotto si anima come se fossero due fatti collegati: l’igiene dentale e il sesso. Come se fosse naturale provare una specie di eccitazione mentre qualcuno ti fa male e ha il completo dominio di te.
Sei sottoposto, sbavato. Hai gli occhi chiusi. Gemi.
Non c’è nulla di correlato tra i tuoi denti e la tua fica. È solo che alcune cose nella vita si somigliano. E tu ci fai molta confusione.
Stringi le mani contro il tuo sesso bollente.
Vorresti che lui capisse e ti lasciasse fare.
Spegne gli attrezzi. Ti asciuga la faccia con noncuranza, come si pulisce frettolosamente la superficie di un tavolino sporco.
Lo ringrazi per questo, come se si fosse trattato di una carezza dopo un’eiaculazione dritta negli occhi.
Ti pulisce la faccia mentre sei distesa a testa in giù e lui è sopra di te.
Stringi le mani contro il tuo sesso bollente.
Vorresti che lui capisse e ti lasciasse fare.
Ma poi lo sai, è tutto fuori luogo.

Non sono masochista.
Me lo sono chiesto spesso. No, non sono masochista. Non mi piace il dolore.
Non mi piace il dolore.
Qualcosa mi piace, ma non è il dolore, e non so cos’è.

(Credits: “Still Life”, 2012 – David Lachapelle)

Dalle terre di Onan

Com’è facile.

Il cazzo è proprio lì davanti.

La prospettiva notturna di un corpo disteso, il membro che sale.

Com’è facile prenderselo in mano, tenerlo stretto.

Tenerselo stretto come a soffocarlo. Stretto alla base cosicché la cappella prenda a somigliare a un omino il quale, privo di fiato e con gli occhi fuori dalle orbite per lo sforzo, lacrimi e coli muco dal naso.

Bagnato e rosso in viso. Le vene rigonfie nelle tempie. Blu.

Com’è facile mettere entrambe le mani intorno al lungo collo di quell’uomo immaginario.

Un uomo dapprima morto che lentamente acquista vigore: mollata improvvisamente la presa, s’accascia lungo la pancia. Quella riga più scura, esatta esatta, fino all’ombelico.

È facile, perché sta lì. Quella cosa morta che prova piacere appena la si sfiora, è proprio lì. A portata di mano.

Che ci vuole, allora, che una mano si trovi da quelle parti. Che si appoggi solo, su di quella carne. O entrambe le mani. Come una conchiglia che copre.

Che ci vuole a scoprire che strofinandolo un po’, ti cambia il carattere.

A scoprire che possono succedere cose enormi.

Il corpo è vivo ed è a portata di mano.

L’uomo che lo capisce è libero.

Il corpo è vivo e domanda attenzione.

L’uomo che lo capisce è colpevole.

Come essere immersi in una roggia e non aprir bocca per placare la sete.

Questo è il delitto di un corpo autosufficiente che non cerca il proprio compimento. O che lo intravede solo negli altri.

Un altro non serve: solo la precisa coscienza di una mano che sale e scende. Ritmo.

Già da subito lo scoprono i bambini, ma io non lo ricordo. Per le femmine il tempo è più tardo, non c’è nulla che sporga tra le gambe e l’idea del piacere nasce solo a cavallo di qualcuno. Ma adesso che sono grande e mi guardo seminuda, d’estate, languire sul letto, benché debba immaginarmi da un’altra prospettiva per scoprire che ho “la fica”, apprendo come per un’illuminazione violenta e terrificante che posso, che IO POSSO procurare ai miei nervi ogni sorta di contrazione. Scoprire i diversi metodi, che a non adoperarsi come spontaneo verrebbe, a non percorrere quei solchi già tracciati, il corpo diventa un animale in metamorfosi e si apre e si chiude, e sanguina, oppure si asciuga. E i muscoli miei addominali sono le gru che tendono i nervi all’orgasmo. Posso venire toccandomi la pancia, premendo su direttrici contrarie due precisi punti in mezzo alle cosce: io posso fare di me e con me un miracolo e può avvenire sempre, continuamente, perché il mio corpo è onnipresente. Non somiglia esso a Dio, il grande assente per eccellenza, che rimanda all’infinito la sua venuta, che procrastina il miracolo a tempo anteriore infinito. Ecco perché la terra di Onan è terra peccaminosa. Perché Dio non vi è invitato e tutti là fanno a meno di lui.

Infinito.

La possibilità di un piacere infinito e ripetuto.

Ma c’è qualcosa che non va.

Dio infatti ma punisce.

C’è un rigetto, dopo tutto. Un rifiuto categorico di ripetere quanto appena fatto: tutto è vano, tutto è nullo. Tutto ripetibile. Ma non più necessario.

Il corpo vorrebbe essere abbandonato.

Un cazzo non è nulla più. E la fica si chiude, una mano la copre.

Una ragazza mora

Una ragazza mora.
Quello che mi piace è che è venuta (per la sua prima volta con una donna) insieme a me.
CON – TEM – PO – RA – NEA – MEN – TE.
E non col suo tipo.
Non posso dire che le donne siano migliori (né peggiori) degli uomini, ma posso dire che il dramma del pistone, dello stantuffo, dell’intrusore, il concetto di PENEtrazione è quanto di più sconveniente possa capitare a una donna che stia con un uomo.
Dove avranno imparato che desideriamo farcelo sbattere dentro?
Tutto falso.
Anche i desideri sessuali sono falsi. Nessuna donna ama farsi venire in faccia, dentro un occhio che poi brucia e si arrossa per una giornata intera, sulla guancia dove si adagia il ciuffo spettinato che poi s’impregna di quella vischiosa sostanza nauseante. Nessuna ama ingoiare quella roba a volte disgustosa, altre volte disgustosissima.
I sogni di donne e uomini non coincidono, non si incastrano (come invece accade per le rispettive e complementari anatomie). Eppure proprio Lui, Gesù Cristo, s’è sbagliato, ci ha posto l’organo del piacere, la piccola chiave al di fuori dalla toppa, fuori dalla magica cavità condannando l’Argonauta ad esplorare senza pace il buco nero interstellare alla ricerca dell’irraggiungibile.
S’affanna, s’arrischia, si perde e viene risucchiato in un tunnel senza fondo, o perlomeno, senza che di questo fondo finale se ne intuisca la reale presenza, perché anche nei cunicoli più stretti, quelli che insomma vengono occupati per intero, quelle fiche che avvolgono come un guanto dalle dita troppo corte e costringono a piegarle, anche lì, contro le pareti di uno spazio fisico che finisce, c’è qualcosa che non si trova.
Un-due-tre-stella, tocca il muro per primo e non vince, non vince. Tocca il muro ancora, e non vince.
Vi sbatte la faccia contro, l’uomo che cerca nell’Universo. Sbatte la testa contro il muro e si sforza di romperlo per arrivare alle stelle, perché lui viene e tu no, lui viene e sparge la sua Via Lattea nel cosmo, la getta da sempre lontano perché possa espandersi in un fragore la cui eco risuona nello spazio ancora oggi e ancora, ancora, risuonerà. Ma lo spazio è vuoto, è un nero senza confini e il suono non torna mai indietro.
L’uomo spinge, mi spinge il suo cazzo dentro e io non lo sento perché lui è troppo piccolo e io sono immensa, il mio corpo è infinito, la mia anima infinita, e la mia capacità senza limiti. Lui spinge, spinge il cazzo dentro la sua ragazza mora, e nemmeno lei col suo corpo più umano, con la sua fica stretta stretta riesce a farlo giungere in nessun dove, non afferra niente, non ottiene nessuno.
Sborra. Due o tre volte. Si ostina. La costringe per tutta la notte a scopare mentre io vorrei dormire, perché è geloso, è geloso che lei si giri dalla mia parte, che mi abbracci con le gambe e mi sfiori con i seni, che mi baci ogni tanto, che mi accarezzi con la sua pelle di ventenne.
La prende da dietro mentre dorme, e io so che le dà fastidio.
La colpisce e lei mugola, ma io so che è fastidio quello che pronuncia.
La china, le mette una mano sulla testa, la spinge in avanti per piegarla di più. Lei lo lascia fare, pur di tenere gli occhi a riposo un quarto d’ora in più, pur di poter continuare a riposare le membra. Che faccia tutto lui, che si arrischi in questo viaggio senza meta, che nel frattempo lungo la strada incontri piazzole di sosta dove poter godere senza dar fastidio.
Che faccia di me quello che vuole purché non mi chieda di provare piacere.

Il piacere è faticoso.
Lei lo cavalca strusciandosi contro il suo osso pubico e lui la spinge via, le poggia le mani sulle anche e la rimette giù. Sembra una lotta quella alla quale assisto e gli vorrei spiegare che è uno sciocco.
La spinge giù.
“Mi fanno male le gambe” lei dice, ma lui continua a volere che cavalchi, che si muova avanti e indietro meccanicamente perché lui sente qualcosa.
E lei?
Li ho guardati dalla distanza di un posto letto ma come se guardassi un film dall’altra parte del continente.
Ho studiato.
Come guardare gli animali in gabbia, i gibboni accoppiarsi con il commento audio di un biologo della riproduzione o di uno studioso comportamentale.
Ho visto una ragazza giovane e annoiata compiacere un ragazzo giovane e sciocco che credeva di essere un grande amante, che paventava un organo di grandi dimensioni e invece non era che un comunissimo manganello di dotazione standard. Uno che si crede un latin lover solo perché c’ha la ragazza bona o perché riesce a portarsi a letto le giapponesi vogliose di sesso a tutte le ore, quelle che con gli occidentali si presentano nella camera d’albergo che a stento avevi lasciato detto il tuo nome e cognome.
Ho visto una ragazza mora dalla pelle olivastra, con gli occhi allungati, le labbra grandi e gli incisivi un po’ distanti. Ho visto il suo corpo lungo e magro ma dalle natiche importanti, morbide come gomma, sbattere e ondeggiare su e giù mentre la schiena saliva stretta e oblunga fino a spalle ossute sulle quali ricadevano capelli fitti e ispidi, neri come quelli delle zingare sporche sulla strada. Sciolti, ovunque. Annodati dalle mani di lui, lunghi, davanti alla faccia, che a infilarle la lingua in bocca me ne trovavo nel naso e negli occhi.
Le lenzuola bianche piene di capelli neri. Da zingara color oliva.
Qualche pelo sulle cosce e a ben vedere, anche nella coroncina tra le natiche. Gliele spostavo con le mani e mi sembrava di toccare il culo di una donna adulta. Glielo aprivo per colarci la saliva, per leccarla da dietro. Lui mi ha detto che dovevo farlo, che le piaceva.
Forse le piaceva qualsiasi cosa tranne lui.
Forse non le piacevo neppure io, ma ero una cosa qualsiasi che non fosse lui.

(Credits: frame dal film “Tokyo Decadence” di Ryū Murakami, 1991)