Stranger than kindness

Quando distesa sul lettino ha preso a tirarmi per il collo agganciando le dita alla base del mio cranio, come sempre accade, mi sono sentita più leggera.
Portare sempre il peso della testa è qualcosa che grava sui denti e li consuma.

Ogni tanto bisogna staccare la testa“. Si dice, no?
Cercava di staccarmela dal resto della colonna.
Piano piano, con rotazioni che mi risuonavano dentro di un rumore di carborundum, di sabbia di fiume tra due enormi pietre litografiche quando con eleganti movimenti a forma di otto, a forma di infinito, si graniscono e consumano l’un l’altra, diventando lisce; la vecchia traccia scompare.
Destra, sinistra, destra. Il mio collo scricchiola e fa male.
Sente il nervo che tira, aumenta, mi spinge una tempia con un movimento laterale, giro la testa verso di lui, il mio orecchio poggia sulla sua mano aperta. Ci infilo metà della mia faccia.
La sua mano intorno alla mia faccia. Inaspettatamente.
La mia faccia dentro un pezzo di carne caldo.

Mi fa molto male.
Da un lato massaggia il collo, fascio di fibre irrigidite, soffro. Dall’altra, c’è la mano su cui appoggio la guancia. La apre morbida, accogliente. Non se ne accorge ma mi ci struscio sopra come i gatti. Ci strofino l’angolo della bocca fino a sentire le dita, ci premo contro l’orecchio come una ventosa fino a non sentire più i rumori né i dolori. È tutto come ovatta: il suono, la sua mano sulla mia guancia, il dolore che mi fa.
(È tutto come l’ovatta di quando a 3 anni mi asciugavi i capelli nel letto, sul cuscino, nella penombra, e con la mano mi accarezzavi. Forse).
È come l’ovatta questa carezza che carezza non è.
Un toccare senza intenzione. Mi tocca e non sa quanto mi piace. Mi tocca, ma tra pochissimo smetterà. (Come quando compiuti 6 anni i capelli non me li asciugavi più).
Una mano che fa male, aggrotto la fronte, stringo i denti, emetto giusto un gemito strizzando le palpebre per quel dolore che arriva dritto come saetta fin dentro al cervello e mi trapassa. Allora ne approfitto, mi premo contro di lui, mi accarezzo da sola, contro la sua mano ormai ferma, immobile sotto il peso della mia testa che non la lascia andare.
Deve aver capito.

Vorrei dirgli di non smettere mai più di massacrarmi e accarezzarmi (anche se non mi sta affatto accarezzando, sono io che lo faccio, a occhi chiusi, immaginando che sia vero) perché se mi fa male io sono contenta. Se mi accarezza mentre mi fa male, sono felice e non sento più nessun dolore. Se mi accarezza anche per finta, se mi accarezza come accarezza un dottore, col tocco leggero ma pieno di bisturi e siringhe e aghi che perforano e manovre impossibili, è comunque la cosa più dolce che io ricordi, su questo lettino, adesso.
Non smettere. Per favore.

La seduta è terminata“, dice.


Solo le mani dei dottori ti toccano per farti del bene.

Solo nella mano del dottore.
Sentire.
Qualcosa, del proprio corpo.
Del proprio cuore.

(Credits: “Child abuse”, from the serie The morgue, 1992 by Andres Serrano)

La paura

In reparto, credi che quell’odore languido sia la tirocinante che ti sposta, che ti posiziona come fossi un manichino, lembi di carne qui e lì, tra un dispositivo e l’altro.
Oppure pensi che sia la macchina stessa, il nauseante misto di disinfettanti e gente che è stata appoggiata su quel ripiano.
Nell’altro ambulatorio, lo senti ancora.
E allora capisci che sei tu. Quell’odore che non riconosci, che non hai mai avuto.
Sei tu.
È la tua pelle.
La tua carne.
Odore di grasso, odore di latte, come le mamme che hanno avuto da poco un bambino.
Hai figli?” mi chiede la dottoressa dalla postazione video.
Mi sente anche lei, da laggiù? Sente questo odore materno che disgusta?
Confabula qualcosa con l’assistente. Sento.
Mi mortifica.
Mi mortifica capire che anche i dottori trovano strano qualcosa nel mio corpo, quella stessa cosa che non ho mai percepito come normale. Ti specchi, lo vedi. Lo vedi che c’è qualcosa di deforme. Sei deforme.
Se lo pensano i dottori, allora non sei solo brutta, sei proprio anormale.
Ma io lo sapevo.
Un senso di vergogna. Vorresti chiedere scusa a qualcuno per quell’imbarazzante stato delle cose.
Perdonatemi se sono così, lo so che non è bello, ma non posso farci niente, sono uguale da quando ero bambina, era tutto previsto. Se potessi, sarei migliore. Se potessi, ve lo eviterei. Non posso farci niente, mi hanno fatta così. E nemmeno per quest’odore. Giuro, di solito non si sente…
Ma è mattino, hai ancora i capelli sulla nuca umidi di doccia, ma è inverno, non fa caldo, non si suda.
Allora è la paura.
La paura. Quella cosa che percepiscono pure i cani.
La paura.
È la paura quando il medico ti rassicura, e poi ripete un’azione su un’area già perlustrata. È la paura quando il dottore ti dice di girarti verso di lui, è la paura, quando senti che ti rassicura ancora.
Quando ti dice che devi fare altre cose, e vuole fartele lui.

È la paura, quando tu non hai paura di niente.
Quando lo guardi gelida sul lettino e gli dici che farai ogni esame come se nulla fosse, che farai quello che c’è da fare.
È la paura che ha il tuo corpo al posto tuo. Che sprigiona ormoni impazziti prima che tu abbia capito.
Perché tu non hai paura finché non capisci. E anzi, non ce l’hai nemmeno dopo, perché proprio quando capisci, tutte le cose vanno al loro posto, qualsiasi esso sia.

La vita è solo quello che può essere. Non c’è da avere paura.

Quell’odore è qualcos’altro che ha paura per me. Al posto mio.
Mi hanno sentito i dottori?
Mi hanno sentita solo i cani?
Ecco.
Mi rincorrono.
Dicono che il corpo umano sprigioni ormoni dello stesso tipo sia quando si prova terrore che nel momento in cui ci si prepara a un’aggressione; è per questo che le bestie ti mordono quando hai paura: confondono la tua vulnerabilità col loro pericolo. Mordono.
Questi cani mi mordono la faccia, le tempie, la testa, ora, che sto guidando la macchina, e non so come dirlo a mia mamma.

Ma io non ho paura. E ho voglia di piangere.
Senza le prove, che senso ha?

Un’emozione pura. Senza motivo.
Come l’odore schifoso del mio corpo.
Ma non ho pianto.

 

Credits: “Radiografie“, 2011 – Collografia (Valentina Formisano)

Un assetto tutto nuovo

È la sera di Natale e nulla a ricordarmelo se non il mio vestito elegante. Non lo mettevo più da un po’. Mi sta largo adesso. La scollatura cade vuota a sottolineare il mio seno insignificante; nemmeno un’imbottitura miracolosa sistema le cose, si nota solo la pancia, gonfia, da tre giorni di digiuno forzato. Chissà cosa contiene.
Mi guardo allo specchio. Sembro avere la testa enorme rispetto al corpo minuto. Perché è carica di pensieri. Ma è la mia parte migliore e forse tendo a sovradimensionarla anche con gli occhi.
L’appuntamento non è dal ma col dottore.
È venuto a prendermi a casa, per la prima volta riuscivo ad essere presentabile, non i soliti abiti da lavoro, intrisi di odori di olio che avevano smesso di essere commestibili. Sono vestita bene, però so che queste cose non le guarda.
Non so quasi nulla di lui mentre lui di me sa tutto. Intuisce le mie cose e mi guarda come se fosse normale. Non può far vedere agli altri questa sua capacità, non si fiderebbero più. Sarebbe come presentarsi nudi al suo cospetto. No, le persone in genere non amano essere scoperte.
Io invece non ho paura. Sono nuda tutti i giorni. E a scanso di equivoci mi spoglio ancora di più, della carne, delle ossa, cerco di portare in giro solo l’anima e il pensiero.

Le persone che conosco spesso hanno chiavi di case altrui.
Mi portano in posti segreti a fari spenti nella notte. Di nascosto a volte saliamo in camere d’albergo con la porta già aperta. Non faccio mai domande.
Un palazzo che conosco, appena dietro le case consuete. Il grande portone d’ingresso si apre…
Avete presente Ferro 3 di Kim Ki Duk?
Io ho una perversione per le case.
Nei sogni la notte apro le finestre del mondo e m’infilo nelle vite degli altri. Di giorno spio appoggiando gli occhi ai davanzali. Dalle finestre ai piani alti osservo le cene dei dirimpettai. Immagino che lì il cibo sia sempre buono e le famiglie sempre famiglie. Al lavoro, dal bagno in cui non funziona la luce, guardo seduta sul water la telenovela quotidiana che accade nella mansarda di fronte. È sera, le decorazioni luminose mi commuovono. Sotto, la pompa di benzina in disuso.
Quando il pesante portone è ormai aperto i miei occhi si riempiono di luce. Più ampio e caldo di come da fuori immaginavo, l’androne è uno schermo su un altro schermo e in fondo, oltre la cornice di legno scuro scuro, proiettano il film di una cena di Natale in casa di gente qualunque. Una porta aperta in fondo a un portone. Non si curano di essere al centro di ogni cosa: ricostruiscono con l’immaginazione la quarta parete e si separano da me e dal dottore che estranei attraversiamo la loro sera. Io mi fermo e li guardo. Non posso farci nulla, ho desiderio. Un signore in primo piano con la barba, vestito di grigio, si accorge di me. Il mio amico mi copre, prendiamo le scale.
Lo so che ti piacciono le case. Ora però andiamo”.
Tutto è ampio, la luce calda è anche brillante, di un giallino luminoso come se fossimo in un salone delle feste. E i legni tutt’intorno sono scurissimi, quasi neri. Le porte enormi delle case, a due a due coincidono coi rispettivi stipiti negli angoli del ballatoio. Sono bellissime, grandissime. Mi fanno paura.
La prima a destra, appena finita la rampa di scale, la nostra. La chiave gira al contrario, e le chiavi inconsuete mi lasciano sempre col fiato sospeso. C’è una regola nelle chiavi. Ma col dottore le regole non esistono più.
Di chi è questa casa? Non lo chiedo, so solo che ha qualcosa da fare qui.
Accende una luce.
Ormai siamo dentro e tutto il mondo è fuori. Nessuno si accorgerà di noi. Al 25 di dicembre la gente ha da fare, nessuno si fa domande su ciò che accade nelle vite degli altri. Apro tutte le porte in questi spazi antichi. I parati anni ’70, mi guardo intorno e ho una vertigine. Confusione, cose, oggetti sui tavoli. Guardo le fotografie per immaginare le persone che vivono qui. Leggo dei documenti, le date non coincidono.
Le fissazioni della gente: una collezione di brutte candele sciolte dal calore delle estati passate. Altre candele impolverate su un tavolino basso. Incisioni appese ai muri. Molte incisioni. L’umidità le ha sgualcite. Poco male, non erano niente che valesse la pena possedere. Mi dico che in fondo su questi muri starebbero meglio le mie, ma la gente preferisce i morti, come se il trapasso conferisse un valore estetico alle cose.
Un reggiseno grigio sul tavolo nella camera da letto, e creme per il corpo. Le annuso.
Ho già acceso tutte le luci di questa vecchia casa e sono entrata senza permesso nell’intimità di persone assenti.
Nella sera di Natale a quest’ora si cena in ampi saloni. Io sono con un quasi estraneo a casa di qualcuno che non so. Mi pervade l’emozione. Immagino questo posto fuori da ogni contesto, fuori dalla città in cui si trova. Che già è fuori dal tempo, con quest’arredamento anacronistico. Mi chiedo come mai non abbiano voluto rimodernare un’atmosfera tanto pesante. Come è possibile vivere felici qui dentro? Senza un po’ di bianco per respirare, senza qualcosa che parli del 2013.
Ho mani ovunque, ma con discrezione. Tocco solo cose non vietate.
Ci sono diverse camere da letto, o forse sono sempre le stesse due, ma io non mi oriento, ho problemi col mio corpo immerso nello spazio. Mi perdo in una casa di pochi metri quadrati se gli ambienti mi ingannano con qualche disimpegno di troppo.
Quello che il dottore mi chiede di fare è rischioso.
Il mio cuore è già libero di nuovo?
Mi fa stendere su un letto. Il vestito elegante è troppo d’intralcio. Io mi spoglio. Resto con le calze nere pesanti e le scarpe col tacco. Sto a pancia in giù, mi copre con una coperta mentre mi slaccio il bustino sulla schiena. Fa molto freddo.
Però mi occorre…
In bagno. Guarda in bagno. Le persone ne hanno sempre qualche bottiglia” gli dico.
Avevi ragione. Come sempre hai guardato già tutto, non è così?
È così
Si versa dell’olio profumato nelle mani. Se le sfrega dolcemente, senza fare rumore. Poi mi tocca.
Mi tocca una spalla.
Mi stringe la base del collo.
Mi prende un braccio e inizia a tirarlo. Me lo porta dietro la schiena e con l’altra mano cerca sotto la scapola.
Questo ti farà un po’ male” dice.
Ma io sopporto il dolore.
Mi distende il muscolo indurito da anni di rabbia, sdegno e disegno. Scioglie con le dita e col mento nodi secolari. “Ma questo non basterà” mi fa sapere.
Poi mi prende l’altro braccio e fa lo stesso, ma a sinistra va un po’ meglio, è di là che il mio corpo dà problemi.
Mi dice di girarmi. Piano.
Mi aiuta a coprire il seno nudo con la coperta, perché non m’imbarazzi, perché non batta i denti, un po’ per l’inverno, un po’ per la tensione. Resto distesa. Ho le mani e i piedi ghiacciati. Le gambe pendono morte per metà fuori dal letto. Un letto antico, alto e senza testiera. Solo rigonfio di coperte e cuscini che creano un pendio dall’altra parte, lontano da me che sono sul bordo.
Guardo il soffitto mentre lui è sparito chissà dove. Quando ritorna, senza dire una parola spegne la luce. Poi chiude la porta. Sento che esce di nuovo dalla stanza.
Una striscia sottile di luce arriva dal corridoio.

Ho paura.

Sono in una casa di qualcuno che non conosco, che non mi conosce. Guardo il loro scenario notturno, tutto quello che vedono loro la notte prima di dormire. Rubo con gli occhi le cose che non hanno valore, ma si tratta di un grado d’intimità che scandalizzerebbe chiunque. Se solo sapessero, si arrabbierebbero molto. Molto.
Sento dei rumori provenire da una delle altre stanze. Rumori di metallo, il dottore (il dottore? O chi?) fruga in un cassetto. Chissà perché, immagino il peggio.

Io conosco degli assassini, conosco perversi, ho fiducia negli estranei. Prima o poi tutto questo mi ucciderà, penso.
Immagino che possa tornare con un grande coltello e trafiggermi il cuore, così, in bella mostra come lo porto di solito. In questa posizione favorevole dove la resistenza dello sterno sarebbe ben poca cosa. Io, distesa e rilassata, coi polmoni ossigenati e le braccia lungo i fianchi.
Non mi muovo di un millimetro. Che importa. Forse è così che devo morire.
Straniante.
Tutto è straniante al punto che mi assale un terrore vero quando sento il cassetto delle posate e lo sferragliare degli attrezzi da cucina. Strizzo gli occhi già chiusi e mi concentro su quello che so del mio terapista. Cerco tra i pensieri, eppure nulla mi rassicura. Delle persone che non si conoscono, ma anche di quelle che si conoscono bene, non è mai possibile dire nulla a riguardo. Nulla di concreto, almeno.
Allora il rettangolo di luce si allarga violentemente sulla parete ammuffita davanti a me, ed è la porta che si spalanca.
(Un tonfo nel cuore e nel cervello, infinite immagini, scene dai film horror, il silenzio dalla sua bocca, io che non so neanche urlare. Che fare? Farsi vedere agitata, no. Fingere la morte come davanti agli orsi. Deglutisco senza farmi udire. Cristo).
Poi la richiude gentilmente.
Si siede accanto alla mia testa.
Ho un casino coi denti” gli dico.
Mi sistema con la pressione delle dita le giunture tra mandibola e mascella.
Ora dovrebbe andare meglio” mi sussurra. “Prova a chiudere”.
Chiudo la bocca. È come se d’improvviso mi mancasse un molare.
Ho un assetto tutto nuovo.

Sono ancora viva.

(Credits: Foto di Giacomo Ferri)